
Dieci anni di depistaggi professionalmente organizzati da chi se ne intende, ovvero dai marescialli che hanno ”addomesticato” i resoconti fin dal primo fermo e via via nei vari percorsi tra una caserma e l’altra, il tribunale e poi i vari ricoveri fino ai massimi livelli gerarchici dell’Arma che hanno di fatto costituito un substrato fatto di pressioni e muri di gomma foderati di omertà. Il dato di fatto è che per una settimana il diritto si è fermato così come il senso di umanità e di protezione che dovrebbe accompagnare ogni iter di assistenza sanitaria per ogni paziente e forse ancor di più per chi è già sottoposto a misure restrittive della libertà. Uscire dal sentimento di vendetta e dall’idea che il comportamento considerato come deviante da una società meriti la sospensione di ogni sentimento di umanità e anche del diritto nei confronti di chi lo commette è ciò che dovrebbe distinguere uno stato ”progredito” come noi italiani ci vantiamo di essere. Abbiamo assistito a dieci anni di ”rallentamenti” giudiziari e buchi nell’acqua per il buon nome di un corpo militare pur in presenza dell’evidenza delle immagini del pestaggio che provvidenzialmente furono scattate. In quella settimana tragica la burocrazia ha indossato il suo vestito più cinico e spersonalizzante nei confronti della vittima ma personificando alla lettera la ”banalità del male” solo che nessuno si è opposto a quel martirio, nessuno si è posto dei dubbi se non sulla convenienza o meno di interromperlo: evidentemente è stata più forte l’idea di consegnare ad altri la ”patata bollente”. La battaglia che i famigliari di Stefano Cucchi, in primis la sorella, hanno dovuto combattere è valsa il doppio perché combattuta in parallelo all’altrettanto dura guerra contro stereotipi, pregiudizi e ”cattiverie” dell’opinione pubblica sui social, su alcuni giornali e sdoganate da molti politici che a tutt’oggi cavalcano l’onda ”benpensante” e cinica del ”… se l’era andata a cercare” che peraltro poco c’entra con il fondamento di uno Stato di Diritto. Oggi, come dieci anni fa, alcuni politici o meglio alcuni burattini malvagi che aizzano odio con slogan studiati a tavolino e poi lo cavalcano, proseguono nel filone ”giovanardiano” (dal politico Giovanardi…) dei danni, anche ”collaterali” tra cui appunto quello subito da Stefano Cucchi, dell’uso degli stupefacenti. Si tratta ovviamente di un pensiero stereotipato, tendenzioso e retrogrado che non tiene conto ipocritamente dei danni dell’alcool e del tabacco o degli psicofarmaci in costante crescita nelle rivendite legali. Si prosegue nell’attribuire alla droga tout court una serie di conseguenze che vanno dall’omicidio efferato ai comportamenti anche minimamente devianti quando invece tali comportamenti rappresentano la prova provata di un mix di condizioni sociali, culturali, socioeconomiche associate ad una più o meno consapevole capacità di discernere tra il bene e il male. Oggi quel corpo ha avuto giustizia ma la tardiva e un po’ inutile costituzione come parte civile dell’Arma, l’incompleto accertamento delle responsabilità medico-sanitarie e soprattutto i molti casi irrisolti come Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, ecc. ecc. devono farci riflettere sul modello di società civile che si sta facendo largo a suon di repressione e ”decoro”: la situazione carceraria italiana, più volte condannata dalla corte europea per i diritti dell’uomo, la tendenza generalizzata alla psichiatrizzazione del disagio o semplicemente del comportamento non conforme anche nella Scuola sono solo alcuni dei segnali nemmeno troppo deboli da … ”attenzionare”.
Dieci anni di depistaggi professionalmente organizzati da chi se ne intende, ovvero dai marescialli che hanno ”addomesticato” i resoconti fin dal primo fermo e via via nei vari percorsi tra una caserma e l’altra, il tribunale e poi i vari ricoveri fino ai massimi livelli gerarchici dell’Arma che hanno di fatto costituito un substrato fatto di pressioni e muri di gomma foderati di omertà. Il dato di fatto è che per una settimana il diritto si è fermato così come il senso di umanità e di protezione che dovrebbe accompagnare ogni iter di assistenza sanitaria per ogni paziente e forse ancor di più per chi è già sottoposto a misure restrittive della libertà. Uscire dal sentimento di vendetta e dall’idea che il comportamento considerato come deviante da una società meriti la sospensione di ogni sentimento di umanità e anche del diritto nei confronti di chi lo commette è ciò che dovrebbe distinguere uno stato ”progredito” come noi italiani ci vantiamo di essere. Abbiamo assistito a dieci anni di ”rallentamenti” giudiziari e buchi nell’acqua per il buon nome di un corpo militare pur in presenza dell’evidenza delle immagini del pestaggio che provvidenzialmente furono scattate. In quella settimana tragica la burocrazia ha indossato il suo vestito più cinico e spersonalizzante nei confronti della vittima ma personificando alla lettera la ”banalità del male” solo che nessuno si è opposto a quel martirio, nessuno si è posto dei dubbi se non sulla convenienza o meno di interromperlo: evidentemente è stata più forte l’idea di consegnare ad altri la ”patata bollente”. La battaglia che i famigliari di Stefano Cucchi, in primis la sorella, hanno dovuto combattere è valsa il doppio perché combattuta in parallelo all’altrettanto dura guerra contro stereotipi, pregiudizi e ”cattiverie” dell’opinione pubblica sui social, su alcuni giornali e sdoganate da molti politici che a tutt’oggi cavalcano l’onda ”benpensante” e cinica del ”… se l’era andata a cercare” che peraltro poco c’entra con il fondamento di uno Stato di Diritto. Oggi, come dieci anni fa, alcuni politici o meglio alcuni burattini malvagi che aizzano odio con slogan studiati a tavolino e poi lo cavalcano, proseguono nel filone ”giovanardiano” (dal politico Giovanardi…) dei danni, anche ”collaterali” tra cui appunto quello subito da Stefano Cucchi, dell’uso degli stupefacenti. Si tratta ovviamente di un pensiero stereotipato, tendenzioso e retrogrado che non tiene conto ipocritamente dei danni dell’alcool e del tabacco o degli psicofarmaci in costante crescita nelle rivendite legali. Si prosegue nell’attribuire alla droga tout court una serie di conseguenze che vanno dall’omicidio efferato ai comportamenti anche minimamente devianti quando invece tali comportamenti rappresentano la prova provata di un mix di condizioni sociali, culturali, socioeconomiche associate ad una più o meno consapevole capacità di discernere tra il bene e il male. Oggi quel corpo ha avuto giustizia ma la tardiva e un po’ inutile costituzione come parte civile dell’Arma, l’incompleto accertamento delle responsabilità medico-sanitarie e soprattutto i molti casi irrisolti come Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, ecc. ecc. devono farci riflettere sul modello di società civile che si sta facendo largo a suon di repressione e ”decoro”: la situazione carceraria italiana, più volte condannata dalla corte europea per i diritti dell’uomo, la tendenza generalizzata alla psichiatrizzazione del disagio o semplicemente del comportamento non conforme anche nella Scuola sono solo alcuni dei segnali nemmeno troppo deboli da … ”attenzionare”.
Dieci anni di depistaggi professionalmente organizzati da chi se ne intende, ovvero dai marescialli che hanno ”addomesticato” i resoconti fin dal primo fermo e via via nei vari percorsi tra una caserma e l’altra, il tribunale e poi i vari ricoveri fino ai massimi livelli gerarchici dell’Arma che hanno di fatto costituito un substrato fatto di pressioni e muri di gomma foderati di omertà. Il dato di fatto è che per una settimana il diritto si è fermato così come il senso di umanità e di protezione che dovrebbe accompagnare ogni iter di assistenza sanitaria per ogni paziente e forse ancor di più per chi è già sottoposto a misure restrittive della libertà. Uscire dal sentimento di vendetta e dall’idea che il comportamento considerato come deviante da una società meriti la sospensione di ogni sentimento di umanità e anche del diritto nei confronti di chi lo commette è ciò che dovrebbe distinguere uno stato ”progredito” come noi italiani ci vantiamo di essere. Abbiamo assistito a dieci anni di ”rallentamenti” giudiziari e buchi nell’acqua per il buon nome di un corpo militare pur in presenza dell’evidenza delle immagini del pestaggio che provvidenzialmente furono scattate. In quella settimana tragica la burocrazia ha indossato il suo vestito più cinico e spersonalizzante nei confronti della vittima ma personificando alla lettera la ”banalità del male” solo che nessuno si è opposto a quel martirio, nessuno si è posto dei dubbi se non sulla convenienza o meno di interromperlo: evidentemente è stata più forte l’idea di consegnare ad altri la ”patata bollente”. La battaglia che i famigliari di Stefano Cucchi, in primis la sorella, hanno dovuto combattere è valsa il doppio perché combattuta in parallelo all’altrettanto dura guerra contro stereotipi, pregiudizi e ”cattiverie” dell’opinione pubblica sui social, su alcuni giornali e sdoganate da molti politici che a tutt’oggi cavalcano l’onda ”benpensante” e cinica del ”… se l’era andata a cercare” che peraltro poco c’entra con il fondamento di uno Stato di Diritto. Oggi, come dieci anni fa, alcuni politici o meglio alcuni burattini malvagi che aizzano odio con slogan studiati a tavolino e poi lo cavalcano, proseguono nel filone ”giovanardiano” (dal politico Giovanardi…) dei danni, anche ”collaterali” tra cui appunto quello subito da Stefano Cucchi, dell’uso degli stupefacenti. Si tratta ovviamente di un pensiero stereotipato, tendenzioso e retrogrado che non tiene conto ipocritamente dei danni dell’alcool e del tabacco o degli psicofarmaci in costante crescita nelle rivendite legali. Si prosegue nell’attribuire alla droga tout court una serie di conseguenze che vanno dall’omicidio efferato ai comportamenti anche minimamente devianti quando invece tali comportamenti rappresentano la prova provata di un mix di condizioni sociali, culturali, socioeconomiche associate ad una più o meno consapevole capacità di discernere tra il bene e il male. Oggi quel corpo ha avuto giustizia ma la tardiva e un po’ inutile costituzione come parte civile dell’Arma, l’incompleto accertamento delle responsabilità medico-sanitarie e soprattutto i molti casi irrisolti come Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Riccardo Magherini, ecc. ecc. devono farci riflettere sul modello di società civile che si sta facendo largo a suon di repressione e ”decoro”: la situazione carceraria italiana, più volte condannata dalla corte europea per i diritti dell’uomo, la tendenza generalizzata alla psichiatrizzazione del disagio o semplicemente del comportamento non conforme anche nella Scuola sono solo alcuni dei segnali nemmeno troppo deboli da … ”attenzionare”.